Prevenzione, programmazione e psicologi: tre P da mettere insieme Stampa
Mercoledì 11 Settembre 2019 14:11

prevenzione questa parola sconosciutaIl Regno Unito ha dato un esempio famoso, il Programma IAPT, che ha programmato gli interventi psicologici su larga scala per rispondere al disagio dei cittadini: oltre un milione e mezzo di cittadini hanno usufruito di interventi psicologici pubblici.

Ora la Nuova Zelanda sembra andare oltre: nel bilancio dello Stato ha previsto un “Wellbeing Budget”, un investimento per il benessere psicologico che comporta l’uso di indicatori sul benessere per orientare le politiche nazionali e nell’immediato un investimento di un miliardo di euro in 5 anni per rendere disponibili interventi psicologici a livello preventivo (scuola, comunità) e curativo, a partire dagli ambulatori dei medici di base.

Anche se la Nuova Zelanda ha un reddito pro capite simile a quello italiano è collocata agli antipodi dell’Italia, non solo geograficamente purtroppo.

 

E’ un Paese che riesce a programmare, e solo con progetti chiari e di lungo periodo si fa prevenzione. L’Italia è un paese dove tutti vogliono contare e dire la propria (Ministeri, regioni, enti locali, aziende sanitarie) e si fatica a fare una programmazione vera, che non siano libri dei sogni, spesso in contrasto tra di loro, troppo influenzati da logiche di parte piuttosto che dall’interesse collettivo. E le azioni sono per lo più dettate da logiche di breve periodo, mentre la prevenzione efficace ha bisogno di investimenti e valutazioni con un tempo adeguato.

Tutto questo spiega perché le politiche preventive sono poco e mal programmate e perché gli psicologi siano ancora così mal utilizzati in questo contesto.

Ci sono i LEA che prevedono gli psicologi, l’accordo CNOP con i Comuni per i servizi sociali, la legge sullo psicologo nelle cure primarie ma è visibile la fatica, lo sforzo dell’Ordine, per ottenere dei risultati, per carità nuovi e importantissimi per la professione, ma che dovrebbe essere nell’interesse delle istituzioni garantire.

L’Italia è un paese fondato su un eccesso di retorica: si parla molto ma si conclude poco.

Questo cosa vuol dire? Che la professione deve rigettare il colloquio con la politica e le istituzioni? Magari in nome di una giusta indignazione?

E’ evidente che questa sarebbe una scelta che non porterebbe da nessuna parte. Vorrebbe dire escludere gli psicologi, perché ci sarebbero altri che si proporrebbero al nostro posto (come già in parte succede).

La risposta non è nel rifiuto sdegnato, nell’isolamento, bensì nel saper potenziare strumenti e trovare alleanze con i cittadini, che si mostrano sempre più consapevoli dei propri bisogni psicologici.

Un esempio è il dibattito che si è svolto a giugno per l’evento nazionale del Trentennale e che abbiamo potuto seguire in streaming. Economisti, studiosi dei fenomeni sociali, statistici, rappresentanti dei cittadini si sono confrontati con dati e cifre sul ruolo e le prospettive della professione. Ne sono uscite prospettive convincenti e innovative: una categoria non più autoreferenziale ma consapevole delle proprie potenzialità, che rivendica una presenza più adeguata in modo non velleitario ma concreto ed autorevole.

Uno dei dati più interessanti è come è cambiato il concetto di salute e la considerazione dell’importanza del benessere e degli aspetti psicosociali della salute. I cittadini hanno nuove consapevolezze che potrebbe portare ad una diversa risposta ai problemi psicologici nella società, soprattutto nel senso di dare risposte più eque e diffuse alla salute psicologica.

E’ una prospettiva che la professione deve saper promuovere e cogliere, anche proponendo strumenti e soluzioni innovative che tengano conto del valore economico degli interventi.